“La teoria dei complessi” di Carl Alfred Meier

In base ai dati ottenuti con la ricerca sperimentale al test delle associazioni verbali, nonché grazie anche all’osservazione clinica dei pazienti, siamo ora in grado di fornire una nostra teoria dei complessi.
Jung, come noto, non espresse mai in merito un pensiero preciso, salvo forse, che nel maggio del ’34 (1), quando tenne la sua prolusione all’Istituto Tecnico di Zurigo, in occasione dell’incarico conferitogli per l’insegnamento della Psicologia. In quell’occasione egli fu, in verità, molto generico, trattò diversi temi, ma tra questi anche quello dei complessi, un argomento per noi molto stimolante.
Quindi, anche in virtù del suo incitamento di allora, siamo adesso in grado di fornire e formulare una «teoria speciale dei complessi», basata, come detto, sui dati sperimentali e sull’osservazione clinica, nonché anche una «teoria generale dei complessi», che prenda lo spunto dalla prima per dilatarsi in orizzonti e speculazioni assai più ampie.
TEORIA SPECIALE DEI COMPLESSI
Dunque, complesso viene dal latino complector, che vuol dire cingere, circondare, abbracciare, impossessarsi; oppure da compleo, che significa riempire, colmare, completare.
In latino abbiamo pure il sostantivo complexus che vuol dire abbraccio, coinvolgimento.
Per noi «complesso» significa ora, sostanzialmente, un ben definito contenuto della psiche, a cui si collega, come suol dire, un’intensa componente emotiva.
Vale la pena tuttavia narrare «la storia» di questo termine, per capire e la maniera nella quale si è introdotto nella nostra disciplina, e il perché dell’attuale significato che ha assunto per tutti noi.
Narra Christoffel (2) che fu Bleuler per primo a pronunciare questa parola, la quale, «captata» da Jung, venne dal medesimo elaborata e riempita di significati. Per la prima volta Jung ne parla nella sua tesi di laurea del 1902: «Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti» (3), quando accenna al «complesso dell’Io». In seguito, per quanto riguarda i lavori successivi, lo stesso termine lo troviamo, ma ancora senza una definizione precisa, nel saggio su la «simulazione della malattia mentale» (4). In altri lavori posteriori troviamo pure come parole come: «Complesso a tonalità affettiva», «complesso energizzato», «complesso ad alto potere dinamizzante», e via dicendo.
Lo stesso Christoffel dice che la Scuola di Lipsia aveva, invece, una particolare attenzione per l’aspetto «formale» del complesso; cosa che ci fa pensare ad un influsso determinante da parte della psicologia della Gestalt, allora molto in voga.
Nel tempo, diremmo, poi, che fu soprattutto il test delle associazioni verbali, che dette la possibilità di una configurazione obbiettiva e scientifica del complesso. E questo, principalmente, attraverso i noti «indicatori di complessi» (*), tra i quali l’allungamento del tempo di reazione, il fallimento, la perseverazione, eccetera. Cosa che prima era possibile solo attraverso l’analisi dell’inconscio (la psicoanalisi di Freud), che portava sì all’individuazione di tali contenuti, ma in maniera del tutto aleatoria e assai poco obbiettiva.
Jung, inoltre, mise in evidenza come tali complessi fossero sempre collegati una certa emotività, per cui li chiamò anche «complessi a tonalità affettiva».
Dunque, il termine complesso, «coniato» in pratica da Jung, fu adottato in seguito anche da Freud e dalla Scuola.
Complesso paterno, complesso materno, complesso di Edipo; chi non l’ha sentiti nominare? Grazie a Freud ora sono universalmente noti, e non fanno parte solo della Clinica, ma anche dell’arte, della letteratura e della cultura in genere. Uscita quasi per caso dalla bocca di Bleuler la parola «complesso» ha così fatto la sua fortuna nel mondo.
Ora, ritornando al test della associazioni verbali, vorrei anche dire come quelle manifestazioni esterne del paziente che rappresentano chiaramente «segnali» o indicatori psichici del complesso, debbono essere, spesso, come «artificiosamente isolate» dalla situazione empirica, così dice almeno la scienza, manifestazione che in realtà, andrebbero invece valutate, nel loro contesto (nella situazione d’esame). È questo il guaio, del resto, di ogni esperimento psicologico: dobbiamo estrapolare, per descriverli, fenomeni e manifestazioni che nell’hic et nunc del procedimento empirico sarebbero valutate diversamente.
Per esempio, nella situazione dell’esperimento associativo, di cui sopra dicemmo, l’inconscio del paziente risponde spesso diversamente a seconda del sesso, del tipo e dell’intelligenza dell’esaminatore. Quindi, il risultato del test, andrebbe sempre valutato in relazione alla personalità dell’esaminatore stesso. Cosa che in genere non avviene.
Un altro fenomeno intrinseco al procedimento empirico, e che non viene considerato, è quella l’assimilazione. Essa interferisce praticamente su tutti gli esperimenti psicologici che non siano basati sul puro riflesso psichico di tipo meccanico, e consiste nel fatto che nella «situazione d’esame» la maggior parte dei contenuti inconsci del paziente vengono messi in azione, vengono attivati e quindi assemblati. Di qui l’assimilazione, il collegamento spontaneo dell’uno e dell’altro complesso, con conseguente modificazione delle risposte al test.
Si parla anche,in tali casi, di costellazione «multipla» dei complessi. Ma veniamo ora alla descrizione del complesso , così come si presenta dal punto di vista strutturale: esso consiste, in pratica, in un’immagine, oppure anche in un’esperienza trascorsa, traumatica, che noi non vogliamo ricordare e che è collegata ad un «quid» di effetto molto intenso.
Ora, specie l’immagine e l’affettività ad essa collegata, appaiono spesso sconvenienti,incompatibili con le direttive dell’Io e con l’atteggiamento morale da esso assunto; ma ciò è male, perché proprio dalla collaborazione tra l’immagine e l’Io sarà possibile lo sviluppo e la fortificazione dello stesso, mentre in caso contrario, l’immagine stessa, fungerà da «corpo estraneo» e l’Io a nuove forme di vita, a nuovi tipi di esperienze esistenziali.
Tale prerogativa del complesso, tuttavia, bisogna dirlo, non è completamente rassicurante, ed è per questo che la coscienza, spesso ne ha paura. Una simile energia «trasformatrice», un tale tendenza al rinnovamento e alla crescita, può essere scomoda, fastidiosa, per cui l’Io se ne «difende». E giustamente, delle volte – dico io – «È solamente un complesso», spesso si dice, per minimizzare uno stato di disagio, il fastidio da esso provocato. Ma questo non impedisce che il complesso stesso, alcune volte, come detto, possa generare anche una malattia, possa trasformarsi in un tumore, che è pure sempre una crescita, uno sviluppo di alcune cellule, sul piano biologico, rappresentano appunto i complessi.
Ritorniamo adesso un momento al test delle associazioni verbali di cui abbiamo appena parlato. In tale ambito, come è intuibile, il complesso «altera» il normale svolgimento della prova.
Quando la parola-stimolo «tocca» un complesso, poi, esso immediatamente, si collega a tutti gli altri (assimilazione), per cui possono veramente evidenziarsi tutti i fenomeni di questo mondo. Di qui l’estrema varietà delle risposte cosiddette «alterate» al test medesimo.
Ma a parte questo meccanismo, di cui non sembra curarsi troppo, per Jung erano soprattutto le emozioni, a determinare le reazioni sbagliate. In seguito, specie praticando il Ri-test, egli si accorse, però, che anche la memoria (*) aveva il ruolo determinante. Un suo deficit provocava, infatti, le amnesie, i cosiddetti vuoti di memoria, che anche nel campo giuridico sono «indicatori di complessi» ( in questo caso, meglio, forse, “di colpe”). Ed anche la particolare pregnanza della parola-stimolo poteva avere, sempre per Jung, un ruolo determinante provocando «perseverazioni»,«stereotipie», o altre reazioni di questo tipo.
Ma ritorniamo adesso a questa teoria «speciale» dei complessi. Essa è speciale perché l’origine del complesso è ignota, come ignoti, in gran parte, sono la sua funzione ed i suoi scopi. La stessa definizione di complesso è, del resto, ancora nebuloso; Binswanger, per esempio, delle volte lo chiamava «contenuto inconscio», delle altre volte «contenuto della coscienza», delle altre ancora «contenuto inconscio che non può assolutamente arrivare alla coscienza». Quest’ultima definizione, dobbiamo confessarlo, ci lascia un po’ perplessi, perché ci si domandava, come un contenuto che non fosse mai arrivato alla coscienza, potesse, poi, da essa essere rimosso (*). ma probabilmente Binswanger si riferiva, a questo proposito, ai contenuti «subliminali», cioè a quei contenuti dell’inconscio che sono troppo deboli per oltrepassare la soglia della coscienza, almeno nelle condizioni normali. Contenuti periferici, apparentemente senza importanza, ma purtuttavia presenti e che possono emergere, per esempio, in caso di ipnosi.
Sempre a proposito dell’ultima definizione di Binswanger riferita ai complessi: «Contenuti che non possono arrivare assolutamente alla coscienza», si potrebbe anche pensare che il meccanismo di «repressione» e «rimozione», sia intervenuto prima che il contenuto giungesse a livello della coscienza (per l’incompatibilità, probabilmente, esistente tra esso e le direttive morali dell’Io).
Sono queste, soprattutto, concezioni freudiane.
Per Jung, invece, tutto ciò che è inconscio rappresenta la «spontaneità», cosa che non è soggetta ad alcuna rimozione. Si può quindi configurare, per tale Autore, la concezione di complessi inconsci-«spontanei» che si esprimono solo nella fantasia, nelle «rêveries», nel disegno spontaneo, eccetera, eccetera.
Ora, sì, tali complessi, apparterrebbero al genere dei «complessi inconsci che non sono mai giunti a livello di coscienza», mentre, per Freud, i complessi sarebbero invece «contenuti», che giunti (quasi?) alla coscienza, venissero da essa violentemente rimossi (rimozione freudiana).
Una terza suggestiva ipotesi, avanzata non so poi da chi, ipotizzerebbe, invece, che i complessi, fossero, per così dire, «a cavallo», tra coscienza ed inconscio. In questo caso avremmo, clinicamente, quella che si chiama «la follia del dubbio».
Mi rendo conto, adesso, con la prima ipotesi, quella junghiana, di aver toccato un argomento assai importante, cioè quello della «spontaneità» dei complessi inconsci-«spontanei», secondo la formulazione sempre di Jung; per cui debbo anche dire che gli stessi, come hanno in genere un carattere «costruttivo», possiedono pure, però, un aspetto altrettanto «distruttivo» e virulento. Per la qual cosa mi raccomando di tenerli sempre «d’occhio», e di non trascurarne gli effetti, che sono spesso, purtroppo, della massima serietà e gravità.
Ma torniamo all’origine dei complessi. Secondo me essi nascono, soprattutto, per un conflitto con l’ambiente. Quindi sono una conseguenza di un’educazione repressiva e sbagliata. Ma anche, secondo altri (v. Freud) sono dovuti a traumi o esperienze terribili dell’infanzia, che dimenticati nell’inconscio, costituiscono, a loro volta, dei nuclei di aggregazione «complessuali». Tali nuclei, poi, come visto, nel corso dell’esistenza, si collegano ad altri (fenomeno dell’assimilazione) per costituire come una struttura più grande, una seconda personalità autonoma, che vive al di sotto dell’Io, e che è, in vari modi, raffigurata.
Come, ora, tale struttura viene alla luce, emerge nella sua purezza più cristallina? Direi nel corso dell’analisi. Attraverso le libere associazioni, attraverso la catarsi, noi liberiamo, in un certo senso, tale struttura dall’involucro delle esperienze contingenti, e forse anche di quelle passate, per cui essa si rivela per ciò che è: un vero archetipo dell’inconscio collettivo (L’archetipo del Sé; in ciò è, in pratica, il processo d’individuazione (N.d.T.)).
TEORIA GENERALE DEI COMPLESSI
Abbiamo già visto, pure a proposito della «teoria speciale dei complessi», come talvolta, non casualmente, ci siamo serviti di termini del tutto particolari, come «rappresentazione», «raffigurazione», eccetera. Questo perché, quando i complessi sono stati «costellati», speso si evidenziano sotto forma di immagini, di figure; per cui, in questo caso, parliamo anche di «personificazione del complesso».
Per esempio, quando qualcuno ne è posseduto (ergriffener), o fortemente condizionato, diciamo: «Quell’uomo è un “ossesso”, un “indemoniato”, un “figlio di Satana”», e così dicendo,«personifichiamo» il suo complesso.
In questi casi, quindi, è come se il complesso si fosse impossessato dell’Io, avesse sostituito l’Io, che d’altra parte può essere considerato, a sua volta, un altro complesso («complesso dell’Io» lo definisce, infatti, Jung in «Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti»).
Ora, tale «impossessamento» od «inflazione» dell’Io, potrebbe capitare anche a noi, ve lo assicuro, per cui saremmo incapaci di cose inaudite. Il termine popolare «assatanato», vuole dire praticamente questo.
Adesso, poiché la vittima di tale vero e proprio «invasamento» non è più in grado di comprendere cosa gli succede, anche la volontà diminuisce per cui, giuridicamente parlando, non si sa neppure se lo teso sia responsabile di fronte alla legge, oppure no. Infatti, qualora il complesso abbia sostituito l’Io, quale decisione potrebbe prendere l’Io, che non fosse inficiata dal complesso?
Poiché quindi abbiamo la presenza nello stesso individuo dell’Io e del complesso, dobbiamo di conseguenza parlare, in questi casi, di «sdoppiamento» della personalità.
La personalità, infatti, nonostante tutto, è ancora precaria; la sua unità si mantiene a stento. I primitivi, per esempio, sostengono di avere addirittura «più anime», «più personalità», che possono da un momento all’altro dissociarsi, ed andarsene ognuna per i fatti suoi. Goethe, più modestamente, parlava di «due anime», e noi di «personalità parziale» riferendoci alla dissociazione dell’Io che può avvenire in determinati casi.
Janet e M. Prince che hanno studiato sperimentalmente il fenomeno, hanno messo in evidenza, in uno stesso individuo, fino a cinque personalità differenti, del tutto coerenti con se stesse.
Mi rendo conto di essere adesso penetrato nell’ambito della psichiatria, e non lo vorrei. Del resto, chi non conosce le «voci» o altre allucinazioni degli schizofrenici? Esse provengono sicuramente oda una loro personalità «dissociata».
Rimando comunque, per ulteriori informazioni in merito, ai testi specializzati sull’argomento.
Ora, per ampliare ulteriormente la mia «teoria generale dei complessi», voglio riportare ancora dei fenomeni che riguarderebbero, forse, soprattutto e meglio, l’antropologia culturale, o il costume dei popoli in genere.
In alcuni luoghi, come noto, appaiono occasionalmente degli spettri. La loro credenza è diffusa; come del resto sono diffusi gli esperimenti medianici tendenti a dimostrare l’esistenza di tali «personalità separate» ovvero «presenze» (5).
ancora, in altri luoghi, più primitivi, ci sono degli oggetti (amuleti, portafortuna, ecc.) che sono in pratica la personificazione di tali spettri (o démoni, se così vogliamo anche chiamarli), e che dipendono dalla proiezione di un nostro complesso inconscio. Di conseguenza essi agiscono come se fossero «extra corpus».
Sul loro reale effetto non potrei giurare, ma sembra che in alcuni casi essi siano abbastanza efficaci. Alla parapsicologia l’ultima parola.
Elfi, folletti, gnomi, inoltre, in tutte le epoche ed in tutte le culture, hanno sempre rappresentato «personificazioni di complessi inconsci», che divenuti coscienti, agiscono per il bene, oppure, per il male. E’ quindi buona norma non inimicarseli, ma trattarli con rispetto e devozione, cercando altresì, di coglierne gli eventuali messaggi o consigli. In questo senso «il complesso» potrebbe anche essere utile ai fini dello sviluppo e della maturazione della personalità, in quanto «buon consigliere» e «portatore di saggezza».
Altre «personificazioni di complessi inconsci» sarebbero per Jung i Lari o i Penati, le «ombre degli antenati» che almeno, una volta, avevano una funzione protettiva. Su tale «protezione» dei nostri avi avanzerei però dei dubbi. Si ricordi infatti, per esempio, la famosa «maledizione degli Atridi», per la quale i discredenti della terza o quarta generazione, erano spesso perseguitati dagli avi stessi (altroché protezione!).
In ogni luogo ed in ogni tempo ci sono stati poi sempre i sogni, nei quali le «personificazioni dei complessi» si esprimono liberamente e senza intermediari.
Essi sono veramente la via regia dell’inconscio, nonché la fonte meravigliosa per ogni comprensione veramente autentica dell’animo umano.
Guardiamo ai sogni con fiducia, amici miei, e non ne saremo affatto disillusi; anzi tutt’altro.
Ora, fin qui abbiamo parlato dei complessi inconsci, ma esistono anche, ve lo assicuro, quelli coscienti, cosa che non necessariamente ci disturba, perché potremmo sapere di avere un complesso e nello stesso tempo, come suol dirsi, scusate la parola, «fregarcene», oppure, «farcene una ragione», giacché poi, in fin dei conti, qualcosa che non va, c’è sempre, nella vita.
La nostra educazione, del resto, la nostra «ausbildung», che forniamo ai figli, che forniamo agli allievi, deve sempre tendere perciò alla creazione di qualche complesso, che, se sopportato stoicamente, faciliterà la socializzazione e l’inserimento del nostro accolito o del nostro discepolo nel mondo del lavoro ed in quello scolastico.
Senza complessi, come si vede, saremmo costretti a ritornare all’«età della pietra».
Dobbiamo quindi pure avere qualche complesso, ed andarne fieri. Essi sono, in fin dei conti, «la molla» della nostra esistenza.
E d’altra parte, senza complessi, avremmo mai potuto studiare i miti, i riti, le religioni, i drammi antichi, quelli moderni ed altre cose ancora che il nostro Jung ci disse di studiare?
Non lo credo proprio.
Quindi, viva i complessi e tutti i… «complessati»!
(Traduzione dal tedesco a cura di F. Ranzato)

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